GALLERIA D’ARTE COMUNALE – MONFALCONE
Non sono i materiali tradizionali della moda, ma quelli semplici della quotidianità di cui Anna Pontel si serve per indagare in modo ironico e critico questo campo. La povertà della carta velina colorata, l’estraneità e facile reperibilità degli stracci da cucina, ma anche stoffe e materiali plastici di scarto servono all’artista per creare abiti senza corpo, rigidi nella loro struttura di sostegno in metallo, ma dalla vestibilità perfettamente visibile. Si padroneggiano i mezzi tecnici della moda, si conoscono i tagli, la metodologia di realizzazione, ma si critica in modo quasi scanzonato e puro, i valori che dominano in questo ambiente, specchio esasperato della società. Dal lavoro di Anna Pontel traspira una presa di posizione individuale, a sottolineare l’inscindibilità del binomio arte e vita, è una questione personale che va contro la logica del produci e consuma, del tutto subito, dell’idea schizofrenica di un tempo accelerato. L’artista si riappropria del tempo, realizza abiti-sculture con materiali e procedimenti definibili artigianali per la lentezza e ritualità. Cucire un punto dopo l’altro, la monotonia dell’uncinetto, sono tutte azioni che dilatano il tempo, lo sgombrano dalla frenesia per lasciar spazio ai pensieri.
Bacino dal quale attingere i modelli da riprodurre è il mondo dei giocattoli, dei plastici e sinuosi corpi delle Barbie, ma anche dei morbidi e variopinti Pokemon, delle bambole e dei peluche. Un mondo dove già domina la legge del mercato, la necessità di creare bisogni inesistenti, ma vendibili per produrre consumo. I vestiti che Anna Pontel realizza però non sono commercializzabili: troppo rigidi, troppo grandi, sformati nelle proporzioni e dai colori edulcorati.
Per Saluti da Monfalcone, sette artiste per un territorio utilizza sempre il mezzo moda per osservare, in punta di piedi, senza invasive intromissioni, il mondo degli operai di Panzano.
Trenta i vestitini realizzati, in spugna colorata, la stessa spugna che serve a ripulire dalla polvere le tute degli operai contaminate da amianto. Non si vuole rappresentare direttamente la malattia, ma fissare nella forma del corpo, come in uno scatto fotografico, un sentimento d’impotenza (le mutilazioni del collo e delle maniche) e di cecità (il collo del vestito scucito) nei confronti della malattia.